La nuova disciplina sui licenziamenti (Riforma Fornero)

25 settembre 2013

Una matassa inestricabile. Potrebbe ridursi a ciò il commento alla riforma stante, le numerose zone d’ombra della riforma sia dal punto di vista sostanziale sia processuale. La l. 28 giugno 2012 n. 92 ha innovato la disciplina dei licenziamenti illegittimi ridisegnando il disposto dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (L. n° 300/1970).

In precedenza detta norma stabiliva (alla presenza del prescritto requisito numerico ossia più di quindici dipendenti) che una volta accertata l’ineffi cacia o l’invalidità del licenziamento che il datore di lavoro fosse tenuto a reintegrare il dipendente nel suo originario posto di lavoro e a risarcirgli il danno nella misura commisurata alla retribuzione globale, di fatto, dal giorno del licenziamento sino all’effettiva reintegra, salvo in ogni caso il minimo di cinque mensilità.

Con la nuova normativa il legislatore ha inteso invece inserire nell’ampia area dei licenziamenti illegittimi una differenziazione delle tutele, operando così una graduazione del sistema sanzionatorio sulla base dello specifico vizio invalidante, con la volontà di limitare l’ambito di operatività del reintegro nel posto di lavoro ai casi di maggiore gravità e riconoscendo negli altri casi il diritto al risarcimento dei danni, seppure diversamente graduato.

Prescindendo dalle critiche a detta riforma occorre comprendere (impresa non facile) quali siano le  caratteristiche della riforma. Prima riflessione va fatta sui commi da 47 a 69 dell’art. 1 della citata l. n. 92, che hanno a oggetto le controversie sulla legittimità del licenziamento e che tendono a ridurre i tempi per ottenere giustizia; si può proporre ricorse entro 180 giorni dalla data del licenziamento e non più entro 270 giorni.

Si è proseguito con l’introduzione di un nuovo iter processuale che si articola in due distinte fasi: una prima contraddistinta dalla sommarietà dell’istruttoria e che si finisce con ordinanza, e una successiva fase che è attivata dalla parte soccombente a seguito di ricorso in opposizione alla suddetta ordinanza.

A tale proposito deve rimarcarsi come il rito sui licenziamenti illegittimi fi nisca per porre una pluralità di soluzioni anche di opposto tenore. Tutto ciò induce a ritenere, oltre quanto evidenziato, alcune incertezze sul versante del diritto sostanziale per la riscrittura dell’art. 18 St. lav.

In sostanza si aggiungono, come si è detto, ulteriori problemi interpretativi di particolare complessità sicché (come è facile dedurre), si perverrà a risposte giudiziarie differenziate, con ricadute negative sulla loro affidabilità per poi dare una risposta giudiziaria che sia, infatti, improntata ad un alto tasso di alea. Ciò determina nei settori portanti dell’economia effetti deleteri, disincentivando gli investimenti di capitali e ponendo seri ostacoli a ogni iniziativa imprenditoriale, con contrazione della produttività e, quindi, dell’occupazione.

L’esigenza di procedere a una riduzione e semplificazione dei riti processuali è alla base del d.lgs. 1 settembre 2011 n. 150. La recente l. n. 92 del 2012 — con l’introdurre in materia di licenziamenti illegittimi un nuovo rito — ha operato però in evidente discontinuità con le già indicate esigenze di semplificazione.

E, infatti, la condotta da sempre oscillante del legislatore e il moltiplicarsi di riforme settoriali non di rado prive di un adeguato coordinamento — stante la mancanza di una visione organica del processo, causa non ultima della sua crisi — sono nella materia scrutinata all’origine di una pluralità di disposizioni che, come deve ripetersi, appaiono di oscuro contenuto tanto da renderne complessa l’interpretazione e incerta la risposta giudiziaria.

Va premesso che le nuove norme inducono a ritenere queste ultime incompatibili anche con il rito speciale del lavoro, ponendo in tal modo fi ne al vivace dibattito sorto sul punto. Le di sposizioni di cui al nuovo rito sono destinate a fare sorgere per il loro tenore letterale una prima rilevante problematica riguardante l’interpretazione da dare all’art. 1, comma 47, della l. n. 92/2012, che riconosce l’applicabilità del suddetto rito alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’art. 18 della l. 20 maggio 1970 n. 300 e successive modifi cazioni.

E sempre dal punto di vista di ampliare l’utilizzabilità del nuovo rito a tutti i casi in cui deve trovare applicazione il sistema sanzionatorio dell’art. 18 St. lav., si è sostenuta la sua estensione anche ai licenziamenti dei pubblici dipendenti rilevandosi al riguardo che il secondo comma dell’art. 51 del d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165 induce a ritenere applicabile anche al lavoro pubblico il suddetto art. 18 poiché parte integrante dello Statuto dei lavoratori.

Un ordinato iter argomentativo rende opportuno premettere che da più parti il nuovo rito introdotto dalla legge Fornero va annoverato tra i procedimenti a cognizione sommaria. Le argomentazioni sinora svolte offrono le coordinate per patrocinare un’interpretazione dell’art. 1 comma 47 della l. n. 92/2011 che, lungi dall’estenderne la portata contro la sua ratio, invece la riduce. Non può, infatti, negarsi che un esponenziale aumento del contenzioso sui licenziamenti, fondato su scelte ermeneutiche estensive del dato normativo, ne rinnegherebbe la funzione acceleratoria perché fi nirebbe per riguardare — con ricadute negative sulla durata dei processi — anche quelle controversie che, per avere a oggetto questioni giuridiche complesse e situazioni fattuali di diffi cile accertamento, vanno assoggettate a un rito a cognizione piena, qual è quello speciale del lavoro.

Né può, in contrario, obiettarsi che in tal modo verrebbero a essere trascurate situazioni soggettive meritevoli anch’esse, se lese, di un tempestivo effetto reintegratorio, giacché queste rimangono comunque tutelabili attraverso il rito speciale del lavoro e, cioè, tramite una disciplina che assicura anch’essa sin dall’inizio la necessaria speditezza non disgiunta dalla possibilità di una trattazione istruttoria capace di compiutamente garantire l’accertamento della fondatezza o meno della domanda spiegata.

Corollario di quanto detto è che il nuovo rito non può trovare applicazione nel licenziamento collettivo non essendo a ciò sufficiente il mero richiamo all’applicabilità del regime sanzionatorio previsto dall’art. 18 St. lav. operato dal comma 3 dell’art. 5 della l. n. 223/1991, così come modifi cato dall’art. 1, comma 46, della l. n. 92/2012. L’individuazione delle coordinate nel rispetto delle quali va individuata l’area di operatività del rito sui licenziamenti porta ad affermare che la recente normativa trova applicazione, alla stregua dell’inciso finale del comma 47, ogni qual volta l’applicazione dell’art. 18 St. lav. debba passare attraverso la risoluzione di questioni concernenti la qualifi cazione del rapporto di lavoro e cioè ogni qual volta che tra le parti si controverta unicamente sulla natura subordinata del rapporto e non invece quando se ne metta in discussione la stessa esistenza con un’azione di accertamento.

La normativa in esame risulta, dunque, applicabile alle domande aventi a oggetto l’illegittimità del licenziamento ex art. 18 St. lav. quando il rapporto tra le parti, pur qualificato diversamente, nella fattispecie di lavoro (autonomo, parasubordinato, in associazione, in cooperativa, in impresa familiare, ecc.) si configuri in concreto, per le modalità del suo svolgimento, come lavoro di natura subordinata. Con specifico riferimento al rapporto di lavoro a termine (subordinato o autonomo) è stato però affermato correttamente in dottrina (in linea con la giurisprudenza di legittimità) che se l’estinzione del rapporto deriva dall’attuazione del termine, la controversia sulla nullità di questo se proposta come impugnazione di un licenziamento non meglio confi gurabile, non può essere assoggettata alla disciplina sui licenziamenti né può essere esaminata nel merito, per cui il ricorso non va rigettato, ma è dichiarato inammissibile stante il disposto dell’art. 1, comma 48 della l. n. 92/2012.

È sempre nell’intento di identifi care l’ambito di operatività del nuovo rito e per dare un significato alla criptica espressione «domande diverse… salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi» (art. 1, comma 48), va patrocinata una scelta ermeneutica incentrata sulla lettera e la ratio della legge in esame. Il nuovo rito e le due fasi del giudizio di primo grado.

Il procedimento, come detto, si articola, infatti, in una fase sommaria per essere l’istruttoria limitata ai soli atti «indispensabili» (art. 1, comma 49); a tale fase può seguire l’opposizione avversa, l’ordinanza di accoglimento o di rigetto del ricorso iniziale, con l’introduzione di una ulteriore fase configurante un giudizio speciale a cognizione piena perché caratterizzato da un’istruttoria che, seppure deformalizzata, si contraddistingue per il ricorso a tutti gli «atti di istruzione ammissibili e rilevanti richiesti dalle parti nonché disposti d’ufficio, ai sensi dell’art. 421 del codice di procedura civile (art.1, comma 57), e perché consente al giudice del lavoro di depositare la sentenza dopo un’opportuna pausa di rifl essione utile per un migliore accertamento della verità materiale e per una più meditata soluzione delle questioni da decidere.

Nella legge Fornero che regola nelle due diverse fasi il nuovo rito non manca disposizioni che risultano, per un’approssimativa tecnica legislativa. Ciascuna delle sue due fasi imporrà al giudice scelte applicative che, stante le mancanze e le imperfezioni del dato normativo, saranno molto diffi cili e potranno inoltre sfociare in «una giurisprudenza anarchica » anche per la possibilità che nella gestione del processo e nell’esercizio dei poteri istruttori d’uffi cio trovino credito disinvolte scelte ermeneutiche che mettano a rischio il principio della terzietà e dell’imparzialità del giudice.

La domanda che ha per oggetto l’impugnativa del licenziamento deve esser proposta davanti al giudice territorialmente competente ai sensi dell’art. 413 c.p.c. in funzione di giudice del lavoro. Il Giudice, dal momento del ricorso, deve fi ssare, entro quaranta giorni l’udienza, assegnando un termine per la notifi ca del ricorso e del decreto (anche per mezzo di posta elettronica certifi cata) non inferiore a venticinque giorni prima dell’udienza, e un termine non inferiore a cinque giorni prima della stessa udienza per la costituzione del resistente. È stato sostenuto in dottrina che in questa prima fase il convincimento del giudice non può che essere superfi ciale per riguardare il solo fumus (fondatezza del diritto invocato) anche se i tempi della decisione non sono strettissimi.

Dalla disciplina concernente l’istruttoria emerge che ricorrono, nel caso di specie, tutti i requisiti delle misure cautelari che si caratterizzano per la loro sussidiarietà da valutarsi con riferimento alle altre fasi del processo a cognizione piena, e per la loro strumentalità che va individuata alla stregua del pericolo che durante il tempo occorrente per fare valere in via ordinaria il diritto questo sia minacciati da un pregiudizio imminente e  rreparabile.

La fase di urgenza, come detto, s’introduce con ricorso che deve avere i requisiti dell’art. 125 c.p.c. dovendo contenere l’indicazione dell’uffi cio giudiziario, delle parti, dell’oggetto e delle ragioni della domanda o della richiesta che s’intende avanzare sicché non si richiede «l’indicazione dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e in particolare dei documenti che si offrono in comunicazione».

La genericità e la sinteticità del disposto dell’art. 125 c.p.c., che a ben vedere richiedono solo un’individuazione del thema decidendum attraverso  l’indicazione della domanda e delle ragioni che la sostengono, senza compiere alcun riferimento alle prove (comprese quelle documentali), trova la sua logica spiegazione in una fase processuale sommaria,  deformalizzata ed estremamente semplifi cata, che si caratterizza per di più per elevare il giudice a dominus delle prove, lasciando allo stesso l’esercizio d’uffi cio dei poteri ex art. 421 c.p.c. ed attribuendogli, inoltre, un ampio potere discrezionale nell’ammissione degli atti istruttori richiesti dalle parti.

Inoltre non è prescritta una preventiva articolazione delle prove, che potranno essere chieste in udienza anche oralmente; non sono configurabili le preclusioni e le decadenze previste nel processo del lavoro; non può assegnarsi al principio di non contestazione lo stesso rilievo riconosciuto nel rito ordinario del lavoro; ed infi ne, il giudice, come detto, può fare largo uso dei poteri istruttori che, nel rispetto del principio dispositivo e del contraddittorio, non possono però essere esercitati sulla base del suo sapere privato e con riferimento a fatti non allegati dalle parti o non acquisiti al processo in modo rituale. Ed ancora, e sempre per quanto attiene alle prove e, più in genere, agli atti istruttori, il criterio della indispensabilità di cui al citato comma 49 dell’art. 1 della l. n. 92/2012 assume in questa fase un valore ed una portata differenti da quelli riscontrabili nel rito ordinario, nel rito speciale di lavoro, nonché nel giudizio di appello di cui al processo in esame.

Ed invero nella fase sommaria la «indispensabilità» viene a significare che i mezzi istruttori vanno selezionati oltre che per la rilevanza, anche per la loro specifica capacità di accertare in modo celere la illegittimità del  licenziamento al fine di pervenire con urgenza ad una ordinanza immediatamente esecutiva avente effetti anticipatori, laddove negli altri casi la nozione di indispensabilità va parametrata alla portata determinante delle prove da porre a supporto di una sentenza che, all’esito di un giudizio a cognizione piena, si pronunzi su tutte le domande e le questioni oggetto della lite.

La decisione della fase in esame, come anticipato, viene presa con ordinanza che è «immediatamente esecutiva» e che non è suscettibile di sospensione o revoca «fino alla pronunzia della sentenza con cui il giudice definisce il giudizio ai sensi dei commi da 51 a 57». Gli effetti anticipatori della ordinanza assumono, dunque, effi cacia immediatamente esecutiva ma, nel caso in cui non vi sia stata opposizione, si determina una preclusione limitatamente alla declaratoria sul licenziamento, al suo eventuale effetto reintegrativo ed alla qualifi cazione del rapporto subordinato, che ne costituisce il presupposto.

Detta preclusione non può però riguardare gli altri diritti immediatamente scaturenti da tale accertamento (ad es. quantifi cazione dei danni, compresi quelli non patrimoniali). A tale conclusione dovendosi pervenire alla stregua del disposto dei commi 47 e 49 dai quali si evince che la sommarietà dell’istruttoria, su cui si fonda la celerità caratterizzante la fase in esame, è diretta ad ottenere una pronta decisione sul licenziamento e sulla  eeintegrazione del lavoratore e non certo ad esaurire l’intero contenzioso in materia, con la conseguente impossibilità che si formi il giudicato su diritti sulla cui esistenza, può anche non esservi stato alcun atto istruttorio.

A tale conclusione deve pervenirsi pure escludendosi la confi gurabilità di un giudicato e di tutti gli effetti da esso scaturenti stante nel caso di specie la sommarietà dell’istruzione limitata agli atti «indispensabili» per ottenere celermente un provvedimento nei termini sopra specifi cati; assunto questo da accreditarsi — nella censurabile assenza nella legge Fornero di un qualsiasi riferimento normativo sul punto — sulla base della più generale considerazione che si è ancora una volta, per quanto attiene alle controversie del lavoro, in presenza di specifi ci provvedimenti a cognizione sommaria e di portata meramente anticipatoria e che, assolvendo ad una funzione interinale, non sono suscettibili di passare in giudicato, per cessare la loro efficacia ex art. 336, comma 2, c.p.c., a seguito di una successiva sentenza.

A seguito della proposizione dell’opposizione avverso l’ordinanza di cui all’art. 1, comma 49 della l. n. 92/2012 si instaura, con ricorso che deve contenere i requisiti di cui all’art. 414 c.p.c., un giudizio ordinario a cognizione piena che termina con una sentenza che effettua una accertamento dei fatti di causa non solo ben più  approfondito di quello effettuato in sede sommaria ma anche più esteso.

In questa seconda fase del giudizio, infatti, oltre a prendersi in esame tutte le decadenze e preclusioni dell’ordinario rito del lavoro e sono anche consentite l’integrazione del contraddittorio nei confronti dei litisconsorti necessari (art. 102 c.p.c.), la chiamata nel processo di un terzo al quale una parte ritiene comune la causa o dal quale pretende di essere garantita (art. 106 c.p.c.) e la chiamata ad opera del giudice allorquando questi reputi opportuno che il processo si svolga in confronto di un terzo al quale ritiene la causa comune (art. 107 c.p.c.) (art. 1, comma 54, l. n. 92).

Il fine del recente legislatore di conciliare nel giudizio di opposizione all’ordinanza e negli ulteriori gradi di giudizio la cognizione piena dei fatti di causa e la celerità del giudizio — ostacolata in verità da una normativa fonte di incertezze su alcuni suoi punti nodali — emerge con chiarezza sia dalla semplifi cazione dell’istruttoria sia dal richiamo al disposto dell’art. 421 c.p.c., volto a rimarcare il rilievo che assumono i poteri d’ufficio del giudice per una risposta che si vuole veloce per la rilevanza degli interessi in contesa (art. 1, comma 57, l. n. 92).

All’esito di un giudizio, caratterizzato da una istruttoria deformalizzata e da incisivi poteri d’uffi cio ex art. 421 c.p.c., la decisione viene presa — dopo eventuali note difensive se ritenute opportune — con sentenza che, come già ricordato, deve essere depositata entro dieci giorni dall’udienza di discussione e senza lettura del dispositivo (art. 1, comma 57), contro la quale è poi ammesso reclamo davanti alla Corte d’appello da proporre con ricorso da depositare, a pena di decadenza, entro trenta giorni dalla comunicazione o dalla notifi cazione se anteriore (art. 1, comma 58).

Con riferimento al gravame in esame è opportuno chiarire come il cd. filtro, seppure applicabile anche al rito del lavoro (art. 436 bis c.p.c. introdotto dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, convertito in l. 7 agosto 2012 n. 134), non può, invece, ritenersi operativo con riferimento alle controversie aventi ad oggetto l’impugnazione dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’art. 18 della l. 20 maggio 1970 n. 300 e successive modifi cazioni. L’effi cacia esecutiva della sentenza reclamata può essere sospesa dalla Corte d’appello se ricorrono giusti motivi (art. 1, comma 60), diversamente quindi da quanto previsto dall’art. 431, comma 3, c.p.c., secondo cui per la sospensione è richiesto, invece, che dalla esecuzione possa derivare all’altra parte un gravissimo danno. La sentenza d’appello — che interviene all’esito di un giudizio in cui sono ammessi mezzi di prova solo se  indispensabili ai fini della decisione o se non sono stati proposti in primo grado (art. 1, comma 59) ed in cui non sono ammesse né domande né eccezioni nuove — può a sua volta essere impugnata, a pena di decadenza, con ricorso per cassazione entro 60 giorni dalla comunicazione o, se anteriore, dalla notificazione (art. 1, comma 62) oppure, in mancanza di entrambi i casi, nel termine di sei mesi dal deposito della sentenza previsto dall’art. 327 c.c. (art. 1, comma 64). L’udienza di discussione è fissata dalla Cassazione «non oltre sei mesi dalla proposizione del ricorso» (art. 1, comma 61).

All’evidente scopo di agevolare la funzione acceleratoria del nuovo rito si è, infi ne, sul versante organizzativo statuito anche che alle controversie sui licenziamenti siano riservati particolari giorni nel calendario delle udienze e che i capi degli uffici giudiziari debbano vigilare sull’osservanza di quest’ultima prescrizione (art. 1, commi 65 e 66, l. n. 92/2012).

Una delle questioni più dibattute tra noi giuslavoristi nell’esame del nuovo rito sui licenziamenti attiene alla compatibilità del giudice che ha defi nito la fase sommaria a decidere anche la fase a cognizione piena introdotta con l’opposizione all’ordinanza di cui all’art 1, comma 49, l. n. 92/2012. Un primo indirizzo ha ritenuto che il giudice delle due fasi deve essere diverso facendo riferimento soprattutto al procedimento ex art. 28 St. lav. nel quale il giudice che ha emesso il decreto sulla condotta antisindacale non può essere lo stesso di quello che deve decidere il ricorso avverso il suddetto decreto, versando in una situazione di incompatibilità.

Tesi, questa, seguita anche in sede di Presidenza di alcuni Tribunali e che ha portato, in ragione della rilevanza della tematica, ad auspicare sul punto un intervento in materia dell’Ufficio Studi del Consiglio Superiore della Magistratura, anche al fine di evitare una diversità di opinioni destinata ad avere ricadute non trascurabili sulla stessa tenuta della recente riforma.

E proprio il pericolo che la ratio della celerità sottesa al nuovo rito possa essere in qualche misura ostacolata induce a ritenere, sulla base di numerose ragioni, che il giudice chiamato a decidere la fase sommaria possa essere lo stesso di quello della fase a cognizione piena. Al riguardo va ricordato che tra i casi tassativi in cui il giudice ha l’obbligo di astenersi rientra quello in cui ha conosciuto «come magistrato in altro grado del processo o come arbitro» (cfr. art. 51 comma 4 c.p.c.), mentre nella fattispecie scrutinata si è in presenza — è bene ribadirlo — di un procedimento che, in primo grado, si articola in due fasi: una di cognizione sommaria e l’altra, eventuale, di cognizione piena, sicché con il condividere una diversa tesi si fi nirebbe per introdurre  surrettiziamente un quarto grado di giudizio per le sole impugnative di licenziamento.

Al di là delle già evidenziate lacune va anche segnalato come contrasti interpretativi continueranno ad aversi — sempre in ragione di una tecnica normativa in più punti carente — pure in relazione alla obbligatorietà del nuovo rito.

Si lascia preferire però l’indirizzo che esclude qualsiasi possibilità di scelta tra l’ordinario rito e quello speciale in esame in considerazione del tenore letterale del comma 48 dell’art. 1 della l. n. 92/2002 («la domanda… si propone con ricorso al Tribunale») e della ratio sottesa all’intero impianto della legge Fornero di certo  individuabile nell’esigenza di privilegiare ad ogni costo la celerità del processo stante la rilevanza a livello socio-economico degli interessi in contesa.

E da dubbi interpretativi non è esente neanche la problematica sulla possibilità del datore di lavoro di proporre domanda ex comma 48, pur sembrando l’estensione anche a quest’ultimo dell’utilizzabilità del nuovo rito la soluzione più accreditabile, dovendosi per il princìpio della tutela differenziata dei diritti la specialità del rito basarsi, in questo come in altri casi, sulla natura degli interessi in contesa e sulle fi nalità generali che pure in termini di durata del processo si intendono perseguire, e non sulla specifi ca posizione della parte che inizia il giudizio.

La nuova normativa sui licenziamenti, che come si è visto risulta di diffi cile lettura e che determinerà per tale motivo incertezze interpretative anche a livello giurisprudenziale, induce a qualche riflessione sul diritto del lavoro oggi. Più in generale, nell’opinione del sottoscritto confortata da altri più autorevoli autori, la cd. Legge Fornero — di cui la riforma sui licenziamenti anche sul versante processuale è parte rilevante — è significativa espressione di un diritto del lavoro sempre di più caratterizzato dall’assenza di chiari valori di riferimento e da una giurisprudenza spesso “oscillante” e non di rado “anarchica”, ragione non secondaria di un disincentivo agli investimenti con ricadute pregiudizievoli in termini di occupazione.