Uso del computer in orario di lavoro

8 maggio 2014

Nonostante gli organi di stampa siano da anni pieni di notizie del genere si trovano ancora dipendenti che invece di prestare la propria attività lavorativa non hanno nulla di meglio da fare che “giocare con il computer aziendale”.

Passare intere giornate lavorative a giocare con il computer aziendale in dotazione anziché eseguire diligentemente la propria prestazione lavorativa può costare al lavoratore dipendente il licenziamento per giustifi cato motivo soggettivo.

E’ quello che si legge tra le righe della sentenza 7 novembre 2013, n. 25069 che la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha emesso in  accoglimento delle ragioni di una società che aveva irrogato il licenziamento ad un suo dipendente sorpreso a giocare per ore in uffi cio ma che si era vista respingere le proprie doglianze in grado d’appello, ove la Corte territoriale competente aveva dichiarato nullo il licenziamento perché fondato su una contestazione del tutto generica e tale da non consentire al lavoratore una puntuale difesa. Di contraria opinione la Suprema Corte.

L’addebito mosso al lavoratore, supportato peraltro da un accertamento tecnico contenente l’indicazione del numero delle partite da egli giocate con il computer aziendale, non può essere ritenuto logicamente generico per il solo fatto che in esso il datore di lavoro abbia omesso la precisa indicazione delle singole partite disputate, ma soprattutto quest’ultima indicazione non può essere considerata essenziale ai fi ni dell’approntamento di una  puntuale difesa da parte del lavoratore giacché la generica contestazione di utilizzare in continuazione, e non in episodi specifi ci isolati, il computer aziendale è per sé sola suffi ciente a consentire la formulazione di un’accurata difesa.

Per questa ragione il Supremo Giudice del Lavoro ha cassato la sentenza impugnata e rinviato alla Corte d’appello territorialmente competente in diversa composizione affi nché provveda ad una diversa decisione “non considerando generica la lettera di contestazione da cui poi è conseguito il licenziamento per cui è causa …”. La Corte d’Appello, in altra composizione, dovrà, in soldoni, tener conto del principio enunciato dalla Cassazione –ed ossia che la contestazione non fosse generica- e su questo pronunciarsi.

Le soluzioni a riguardo possono essere due. Nel primo caso considerare legittimo il licenziamento per la gravità della condotta ed il venuto meno  vincolo fiduciario tra datore e lavoratore o nel secondo caso considerare sproporzionato la sanzione del licenziamento a fronte della condotta tenuta dal
lavoratore.

Propendo per la seconda ipotesi anche a fronte della sentenza che di seguito commento.
La Corte di Cassazione ha avuto modo di pronunciarsi in via defi nitiva su di una articolata questione inerente il licenziamento di un lavoratore il quale, secondo la tesi del datore di lavoro, avrebbe installato e utilizzato il programma eMule sul computer aziendale, così mettendo a repentaglio la sicurezza dei documenti lì conservati e violando specifi che disposizioni aziendali.

Invero, sono state le pronunce dei giudici di merito ad aver affrontato, in modo diretto, la questione della legittimità del licenziamento. In altri termini, è stato nel corso del giudizio conseguente all’impugnazione del licenziamento che il giudicante è giunto ad accogliere l’impugnazione statuendo l’illegittimità dello stesso.

Nel giudizio innanzi alla Corte di Cassazione – come peraltro imposto dal codice di rito – il datore di lavoro ha sollevato censure nei confronti della  pronuncia del giudice di merito che, a ben vedere, miravano a destituire di fondamento il percorso logico seguito dal quest’ultimo, senza poter entrare direttamente nel merito della vicenda fattuale.

In ogni caso, è utile evidenziare che, in punto di fatto, il datore di lavoro aveva disposto il licenziamento ponendo a carico del lavoratore due addebiti principali: l’aver installato (e utilizzato) il programma eMule e l’aver negato (a fronte di un primo addebito) di aver posto in essere tale condotta.

In sostanza – e su ciò il giudice di merito hanno fondato parte della propria decisione – ciò che veniva contestato al lavoratore non era tanto l’aver  installato il predetto software, quanto invece il negare di averlo effettivamente fatto.

Ora, a fronte di una tale motivazione posta alla base del licenziamento, il giudice di merito aveva evidenziato, in primo luogo, che negare le contestazioni mosse a proprio carico non può in alcun modo essere fonte di ulteriore addebito.

Per cui, già da tale argomentazione la posizione del datore di lavoro veniva fortemente ad essere indebolita.
Oltre a ciò, nelle fasi di merito del giudizio era stato valutato che il licenziamento fosse del tutto sproporzionato rispetto al fatto dell’aver installato il programma in questione: questo perché il CCNL applicabile prevedeva esattamente l’ipotesi di utilizzo improprio delle strumentazioni aziendali senza tuttavia ricondurre ad essa, quale corrispondente sanzione, il licenziamento; inoltre, anche la regolamentazione interna aziendale, pur vietando in linea di principio l’installazione e l’uso di programmi non espressamente autorizzati, non prevedeva la misura del licenziamento per l’ipotesi dell’eventuale violazione della stessa; oltre a ciò era stato poi valutato che dalla condotta del lavoratore non era emerso alcun danno per il datore e che il lavoratore, nel passato, era incorso in un unico episodio di addebito disciplinare.

Come anticipato, il giudizio di legittimità si è svolto in modo tale da affrontare solo indirettamente il tema della rilevanza della violazione posta in essere dal lavoratore. In particolare, a fronte della censura mossa dal datore di lavoro ricorrente secondo cui il giudice di merito avrebbe mal applicato le disposizioni di cui agli artt. 2119 e 1362 c.c. (recesso per giusta causa e interpretazione dei contratti), la Corte ha invece ribadito come la decisione dei giudici di merito fosse corretta. In tal senso, il giudicante ha innanzitutto evidenziato come le disposizioni normative che impongono la proporzionalità fra
infrazione disciplinare e sanzione hanno contenuto “elastico” e che, di conseguenza, il giudice è chiamato a fornire una interpretazione della disposizione normativa in modo da adeguarne i contenuti al contesto storico-sociale attuale: da ciò la riconduzione di un tale procedimento del giudice di merito ad un momento di interpretazione giuridica e non, invece, a quello di valutazione dei fatti.

Cosa, quest’ultima, che avrebbe reso insindacabile da parte della Cassazione la valutazione del giudice di merito.
Invece, poiché la valutazione della corrispondenza fra infrazione e sanzione integra un’operazione di interpretazione giuridica, essa risulta sottoposta al vaglio della Corte. Detto ciò, la Corte ha però confermato che l’interpretazione fornita dal giudice di merito sia del tutto condivisibile, in quanto la condotta del lavoratore, inquadrata nel cotesto del vigente CCNL applicabile (che non riconduceva ad essa il licenziamento) e dell’assenza di un pregiudizio effettivo per il datore di lavoro (oltre all’ulteriore circostanza che il lavoratore in questione, nel corso dei quindici anni di servizio, era incorso in un’unica violazione disciplinare), è stata ritenuta tale da non far assumere al licenziamento disposto il carattere della proporzionalità rispetto  all’addebito.